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Storie della nostra vita

Ogni volta che finisco di leggere Ted Chiang ho bisogno di calmare i nervi; nella mia testa si accavallano paragoni forti, forse troppo forti, e non c’è nulla di più difficile che placare un lettore soddisfatto dalla testa piena e con la sensazione di avere appena scoperto un nuovo continente: perché il primo atto involontario di questo lettore sarà paragonare la sua nuova scoperta a ciò che già conosce bene, che già stima e ama, facendo torto agli uni e agli altri. Di quanti padri è figlio Ted Chiang, chi sono i suoi sensei, quanti? Che importanza ha? Il brivido intanto resta, dopo aver chiuso il volume o aver divorato un racconto. Quante volte succede nella vita? Non lo so. Ricordo solo di aver provato qualcosa di simile allo stordimento l’ultima volta dopo aver concluso “Tutti i fuochi il fuoco” di Julio Cortàzar. Poi per anni bei libri, brutti libri, ottimi, capolavori, ma quella miccia sembrava non essere più accesa. Fino a quando non è arrivato “Storie della tua vita” come per puro caso: cercavo dei racconti perché stanco dei romanzi, possibilmente racconti di fantascienza. Prima storia di quella raccolta è “Torre di Babilonia”: una rievocazione scrupolosa che mischia mito e storia della nascita della famosa torre, che ha poco di fantascientifico in senso canonico. Lì ho capito. Ted Chiang è parente dei Borges: un maestro dell’arte breve e del fantastico, che costruisce i suoi racconti come enormi macchine speculative su una realtà virtuale proiettata non solo nel futuro, ma spesso anche nel passato, o nei passati — giacché uno dei grandi temi di Chiang è il viaggio nel tempo e gli effetti sulla psiche e la coscienza che questi possono avere sull’umanità.

Ho centellinato i racconti di Chiang, contenuti in sole due raccolte (entrambe facili da trovare anche in Italia). Perché sono racconti densissimi, pieni di avvenimenti e informazioni, costruiti con grande abilità — alcuni direbbero sin troppa, tanto da poter risultare freddi e respingenti a tratti; ma è solo la scorza, perché nel mondo di Chiang non c’è nulla di più importante dei sentimenti, delle scelte etiche e delle conseguenze che queste e l’uso della tecnologia ha sui rapporti tra esseri umani, e tra esseri umani e esseri senzienti.
I racconti scritti da Chiang sono pochissimi: in trentuno anni di attività questo scrittore poco prolifico ha sfornato “solo” diciassette racconti (o sedici racconti e un romanzo breve, che dir si voglia). Non sorprenderà sapere come la maggior parte di questi abbia vinto premi importanti, che siano Hugo, Nebula o Locus. Questo perché un racconto di Chiang è come un granello di sabbia visto al microscopio: un universo in miniatura, capace di lasciarci più implicazioni impossibili da sciogliere di quante ce ne aspettassimo.

Scandagliamo dunque le due raccolte di Chiang: “Storie della tua vita” e “Respiro”. Troveremo rievocazioni storiche su avvenimenti mitici affrontati con uno sguardo più rigoroso in termini scientifici (il già citato “Torre di Babilonia”, ma anche “Il mercante e il portale dell’alchimista” che è una splendida rievocazione di viaggi nel tempo in una cornice da Mille e una notte). Ma dove Chiang sembra trovare una dimensione peculiare è nei racconti futuristici, in cui l’utilizzo di una nuova tecnologia può portare a mutamenti antropologici enormi nella psiche e società umana — senza per questo aprire forzatamente scenari distopici alla Black Mirror, ma limitandosi a mapparne ogni possibile conseguenza; “Cosa ci si aspetta da noi”, forse il suo più breve, indaga il libero arbitrio in uno scenario perturbante alla Matheson, con una sorta di scatola capace di prevedere sempre le intenzioni della persona che la possiede; “La verità dei fatti, la verità dei sentimenti” è in fondo una rielaborazione del Funes borgesiano: cosa accade quando un dispositivo capace di immagazzinare ogni avvenimento della tua esistenza, una sorta di cloud del cervello, può essere utilizzato in ogni momento per ripescare qualcosa avvenuto anche venti, trenta anni prima, e che si ricordava in maniera diversa? Messi di fronte alla fallibilità della memoria — che inventa sempre, monta, decostruisce, ricostruisce — e allo strapotere del nostro ego, le nostre vite potrebbero risultarne sbriciolate assieme a ogni legame che credevamo sincero… oppure potrebbe essere un’occasione di ripartire daccapo, in maniera più onesta con noi stessi e gli altri?

Ciò che una illimitata capacità del cervello può fare è al centro di uno dei più bei racconti di Chiang, “Capire”, che è invece una variazione sul tema del famoso “Fiori per Algernon” di Keyes: un supercervello, un superuomo, che più va avanti più è capace di mappare la realtà attraverso le informazioni come fosse un computer avanzatissimo, fino a diventare una mente aliena infallibile. O quasi.

“Rivelazione.
Capisco il meccanismo del mio stesso pensare. Capisco con precisione come faccio a capire, e la mia comprensione è ricorsiva. Capisco l’infinito regresso di questa autoconsapevolezza, non procedendo passo passo senza fine, ma realizzando il limite. Mi è chiara la natura della conoscenza ricorsiva. Un significato totalmente nuovo del termine “autoconsapevolezza”.
Il logos sia fatto. Conosco la mia mente nei termini di un linguaggio più espressivo di quanto avessi mai immaginato. Come Dio crea ordine dal caos con una parola, così io mi ricreo con questo linguaggio. È meta-auto-descrittivo e auto-regolatore; non solo può descrivere il pensiero, ma può descrivere allo stesso tempo i suoi propri meccanismi e modificarli, a tutti i livelli. Cosa avrebbe dato Gödel per vedere questo linguaggio, dove modificare una proposizione provoca che l’intera grammatica ne sia riformulata.
Con questo linguaggio ora posso vedere come sta funzionando la mia mente. Non pretendo di vedere i miei propri neuroni che scintillano; queste cose appartengono a John Lilly e ai suoi esperimenti con l’Lsd degli anni sessanta. Quello che posso fare è percepire le configurazioni; vedo le strutture mentali che si formano, che interagiscono. Mi vedo pensare, e vedo le equazioni che descrivono il mio pensare, e mi vedo capire queste equazioni, e vedo come le equazioni descrivono il mio capirle.
So come hanno prodotto i miei pensieri.
Questi pensieri.”

Forse il racconto più famoso di Chiang è però proprio “Storie della tua vita” da cui Villeneuve ha tratto Arrival, ovvero la storia di un first contact e delle difficoltà linguistiche (ed emotive) con cui avviare una conversazione con degli altri esseri — non solo alieni. Perché in effetti a ben pensarci il tema prediletto di Chiang, da informatico di professione, non è solo quello della costruzione di una lingua, di un ponte per comunicare con altri esseri (non per forza alieni), bensì quello della creazione — che passa attraverso il linguaggio; materia che sconfina anche nella mistica ebraica, e infatti “Settantadue lettere” mette in mezzo proprio questi argomenti, in una atmosfera steampunk che lo scrittore statunitense sembra non disprezzare per nulla, visto che la userà anche nel raccontino su commissione “Il brevetto della Tata automatica di Dacey”, dove si immagina la costruzione di una cybernetic grandma anni e anni prima di quella di Bradbury, molto più arcaica, ma con implicazioni sociali e psicologiche indagate in una satira sociale sulla società vittoriana — e sulla pedagogia in generale — quasi terribili.
Ma Chiang è questo, le sue storie in fondo girano sempre attorno al tema genitori-figli e comunicazioni difficili più che sull’inventare sofisticati mondi futuristici o viaggi nel tempo complessi (ma ci sono anche questi): “Il ciclo di vita degli oggetti software” ricorda in parte “Kentucki” di Samantha Schweblin: ma il primo è stato scritto da una persona con una visione più onnicomprensiva della tecnologia, e soprattutto capace di osservare un problema (nello specifico quello di “animali” con una intelligenza artificiale che diventano esseri nuovi dotati di coscienza) cercando di sviscerare ogni punto della questione, senza limitarsi al lato più inquietante e agli scompensi emotivi — ma parlando anche della coscienza di nuove forme di vita.
L’angoscia è la vertigine della libertà”, poi, è proprio scritto su misura per Christopher Nolan: sfido a dirmi il contrario. Ed è forse la conferma che in futuro vedremo Chiang al cinema e nelle serie tv in maniera onnipresente, a discapito dell’apparente glacialità dei suoi racconti.

Chiudo citando il racconto che più mi ha colpito, forse perché dimostra la versatilità di uno scrittore difficile da etichettare in un genere: si intitola “L’inferno è l’assenza di Dio”. È a tutti gli effetti una fantasia teologica, una visione di inferni alla Swedenborg, in un mondo dove la presenza di Dio è finalmente tangibile, gli angeli appaiono in una luce sfolgorante che distrugge tutto ciò che è attorno a loro e l’inferno può vedersi, a ricordare costantemente la possibilità di finirvi intrappolati. Gli uomini cercano la redenzione ma la fede agisce per vie imperscrutabili. È un racconto dove la fantascienza è completamente assente: qui siamo in un mondo visionario che ha pochi eguali, una riflessione filosofica sul libero arbitrio (ancora) e sulla religione che lascia solo tante domande e nessuna risposta.

Nicola Laurenza

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